20 ottobre 2020

I Seminari di Apice: 28 ottobre, “I poeti di Apice/3”

 

Il 28 ottobre riapriamo il ciclo dei “Seminari di Apice” con il terzo incontro della serie “I poeti di Apice” dedicato questa volta a “La poesia tradotta. Mappare il campo da vicino e da lontano”. Intervengono Paolo Giovannetti (IULM Milano) e Jacob Blakesley (University of Leed); coordinano Stefano Ghidinelli ed Elisa Gambaro (Università di Milano). Per partecipare gli utenti Unimi potranno accedere con il codice kldnpnw, mentre gli esterni potranno prenotarsi scrivendo a stefano.ghidinelli@unimi.it.

 

“Metà anni Trenta. Dopo la morte prematura, nel ’33, dell’amico pittore Scipione (al secolo Gino Bonichi), Enrico Falqui – intellettuale e critico letterario già fra i più influenti di quegli anni – ha un assillo. Fra le carte dell’esponente a lui più caro della cosiddetta «scuola romana», ha ritrovato un gruppetto di poesie inedite, una decina di folgoranti, fascinose liriche di gusto ermetico-surreale. Vorrebbe farle pubblicare: e sceglie allora di rivolgersi a Giovanni Scheiwiller, colto e raffinato piccolo editore milanese (benché di origini svizzere) da sempre sensibile ai cortocircuiti fra “arte moderna” e “poesia nuova”. Proprio nel ’36, del resto, Scheiwiller ha inaugurato una nuova, originale collanina, che sembra proprio fare al caso di Falqui. Si chiama “All’insegna del Pesce d’oro” ed accoglie micro-sillogi poetiche, diari d’artista, brevi testi in prosa, in piccolissimi ed eleganti volumetti “in trentaduesimo” («cm. 7 x 9, 32 pagine»).

Alle richieste di informazioni di Falqui, Giovanni risponde spiegando anzitutto il delicato, geniale equilibrio estetico/finanziario su cui si reggeva la formula dei Pesci d’Oro: «Caro Falqui, l’edizione totale di ogni volumetto viene a costare (comprese le spese d’affrancazione per l’invio degli omaggi) a L. 550; a coprire queste spese servono le 28 copie su carta Japon (delle 30 copie 1 è destinata all’autore e 1 a me). Non dovrebbe essere troppo difficile a trovare un ammiratore di Scipione che ne sottoscriva 10 copie (L 200). Io non posso continuare (e lo faccio da 9 anni) a regalare volumi e volumetti ed essere esposto per biglietti da mille; le mie finanze non me lo permettono più».

La letterina – datata 25 marzo 1937 – è uno dei tanti, preziosi materiali conservati ad Apice nel Fondo Scheiwiller. Ed è un esempio paradigmatico dello speciale spiraglio che gli archivi letterari ed editoriali sono in grado di aprirci sulla storia intima, segreta, dei testi e dei libri che, da lettori, acquistiamo in libreria, o magari ritroviamo in biblioteca – e che proprio e solo in quella forma possiamo incontrare. Soprattutto, gli archivi ci insegnano o ricordano, con intensità vivida e concretezza corposa, che la letteratura – e la stessa poesia – non giungono a noi attraversando uno spazio vuoto. Sono invece il prodotto di un fare che è già sempre, anche, un fare assieme, un fare per e con qualcuno.

Nei caveau di via Noto, in effetti, sono tanti i fondi e le collezioni che in più maniere testimoniano aspetti e dinamiche di rilievo della vita della nostra poesia novecentesca. Ci sono ovviamente gli archivi di singoli poeti, come ad esempio quelli di Antonio Porta, Giovanni Giudici, Bartolo Cattafi. Ma ad Apice sono conservati anche importanti archivi di editori di poesia novecentesca (a cominciare appunto da quello di Scheiwiller), cospicue collezioni di riviste (come quella del fondo Biblìon), nonché tanti fondi di critici e intellettuali che alla poesia hanno dedicato una parte importante del proprio lavoro (gli archivi Antonielli, Bonfanti, etc.); senza dimenticare lo straordinario patrimonio bibliografico dei fondi di amatori collezionisti, con tante prime edizioni o edizioni rare di libri poetici novecenteschi (a cominciare dalla collezione Reggi).

Fra prime stesure manoscritte e bozze di stampa annotate, pareri di lettura e intrecci epistolari, ciò che da questo giacimento di documenti ci viene incontro non è solo il suggestivo, spesso illuminante “dietro le quinte” della poesia nel suo farsi: il processo sempre un poco avventuroso, accidentato e sghembo, attraverso cui poesie o raccolte giungono ad assumere la “loro” forma. Quello che gli archivi di Apice ci offrono è anche uno straordinario punto d’osservazione – una poltrona in platea – per osservare da vicino le peripezie che si svolgono su quell’altro “palcoscenico”: in cui il poeta, nel suo sporgersi verso il lettore a cui aspira, entra in relazione e in dialogo con una pluralità di altri soggetti, circuiti, istituzioni, perché è solo e proprio misurandosi con loro, con la loro capacità di iniziativa e interlocuzione, progettazione e invenzione, che le sue pagine inchiostrate potranno raggiungere davvero i loro pochi o tanti destinatari. Come nel caso del librino di Scipione, che alla fine – ovviamente – si farà (Le civette gridano uscì alle stampe, con una commossa prefazione di Falqui, nel 1938), e di tante altre sillogi oggi ritenute fondamentali della poesia italiana del Novecento, che videro la luce proprio grazie alla geniale formula dei Pesci d’Oro. Un esempio di «Nuova Economia editoriale», la definirà qualche anno dopo Ezra Pound (un altro dei «poeti di Scheiwiller»), in un testo poi spesso usato nei cataloghi della casa editrice. Di certo un’invenzione fra le meno rinunciabili, per chi ambiva a rendere concretamente praticabile il programma di «pubblicare letteratura, prima che il pubblico domandasse la letteratura di domani». Come fecero appunto Giovanni Scheiwiller e poi, con rinnovata energia, il figlio Vanni, nella seconda metà del secolo. Ma come in fondo tanti altri grandi e piccoli editori di poesia, nel pur così turbinoso e complesso mercato delle lettere novecentesco, hanno continuato a trovare il modo di fare.”

 

Stefano Ghidinelli  
Università degli Studi di Milano