11 novembre 2021

Le traduzioni “giuste”

Foto courtesy of Emmanuel Ikwuegbu, su Unsplash.com

 

La riflessione sul tradurre parte spesso da Walter Benjamin e da quel riferimento capitale che è il saggio intitolato Il compito del traduttore (1920), ormai disponibile in varie lingue e di recente diventato oggetto anche di un “metadiscorso” sull’operazione stessa della conversione da un codice all’altro: come traduciamo, in una lingua altra rispetto al tedesco, le parole che Benjamin dice sulla traduzione?

Nella versione originale del titolo, scrive lo studioso Homi K. Bhabha in una prefazione recente, il termine usato da Benjamin è “Die Aufgabe”: quasi un compito scolastico (“task” in inglese, per Bhabha), che in quanto tale va sottoposto a verifica, in modo che sia possibile comprendere se il risultato traduttivo funziona o no (“Translation’s Foreign Relations”, 2021). In questo istruttivo  gioco di scatole cinesi, Bhabha procede elaborando un’ipotesi interpretativa coraggiosa e nuova, nella quale, semplificando, il cardine del ragionamento è rappresentato dalla nozione di traducibilità (o intraducibilità) e dalle condizioni di fattibilità che essa impone. Questa nozione non è sospesa nel nulla, ma va collocata nella rete di relazioni letterarie, culturali, sociali, persino politiche che stanno attorno al testo e ne modellano e rimodellano il significato. E, cosa ancora più importante, essa risponde all’evoluzione di linguaggi e culture nella storia.

Le possibili implicazioni di questo ragionamento sono molte, e lungi dallo sminuire il senso e la necessità dell’operazione traduttiva, le conferiscono piuttosto un’inevitabile molteplicità che finalmente scavalca l’idea che vi sia una traduzione “giusta” o “definitiva” di qualunque originale. Il testo – ogni testo – sta dentro un tempo e uno spazio precisi. Questo vale sia per le versioni originali che per le loro traduzioni. La codifica primaria – quella pensata dall’autore nella sua lingua, per il suo pubblico e nel suo contesto di appartenenza – modella i significati che si intendono trasmettere, con una consapevolezza che è storicizzata e localizzata. La consegna del testo a lettrici e lettori innesca un meccanismo di decodifica, che acquista complessità quando il testo originario viene traghettato in una lingua diversa, attraverso la mediazione di un soggetto che, in nove casi su dieci, non è l’autore.

C’è dell’altro. Una traduzione procede dall’originale (quasi sempre: spesso fanno eccezione le lingue orientali). Tuttavia questo originale potrebbe collocarsi in un’epoca che non è l’oggi e dunque esso potrebbe già aver attraversato processi di decodifica legati a uno slittamento cronologico in avanti: per intenderci, leggere i sonetti di Shakespeare ora, anche in lingua originale, non è la stessa cosa che leggerli quando son stati scritti. Come lettrici e lettori, si comprendono cose diverse, motivate dalle preconoscenze determinate dai contesti di appartenenza, e ovviamente dai filtri soggettivi. Se il testo si sposta nello spazio e viene traghettato da una lingua all’altra, l’operazione si fa ancora più complessa, e i significati si moltiplicano.

E infine: se abbiamo che fare con un testo che è già stato tradotto e per qualche ragione si pone la questione di ritradurlo, la relazione che verrà istituita, tanto per il pubblico quanto per chi traduce,  sarà un ménage a trois in alcuni casi difficilissimo da dipanare.  Non si può ritradurre Herman Melville in Italia senza tornare alla traduzione di Cesare Pavese del Moby Dick, come non si può non pensare che la voce creativa di un grandissimo scrittore italiano non risuoni nella versione italiana di uno scrittore americano parimenti grande. Questo perché comunque la relazione di chi traduce con il testo è tutt’altro che meccanica. In modo pressoché inevitabile, chi traduce risemantizza, e dunque non può esistere una traduzione “definitiva”. Il tradurre è piuttosto un processo nel quale ogni nuovo passo deve rispondere alla necessità di ricollocare l’originale dentro un contesto (non solo linguistico) differente.

In questa prospettiva, la traduzione non è solo un atto necessario, ma un gesto creativo di ricodifica, che esclude la presenza di un’unica versione possibile e che, in democratica libertà, ammette diverse possibilità, persino nella stessa lingua d’arrivo, di una fonte nata dalla deliberata volontà di un autore, ma poi consegnata al pubblico dei lettori, e dunque a un’entità collocata in una nicchia di spazio/tempo ben definita e che alle caratteristiche di questa nicchia risponde nei suoi processi interpretativi.

Così oggi, senza scandalo alcuno ma piuttosto alla luce di una consapevolezza nuova che si applica allo studio meticoloso delle fonti con il piglio della contemporaneità, è possibile ritradurre anche testi ritenuti intoccabili. Lo fa Carmen Gallo, smantellando con risoluta determinazione le precedenti traduzioni della The Waste Land di T.S. Eliot a partire dal titolo (La terra devastata, in luogo di La terra desolata) e, nel contesto di letture popolari, ma con una decisione analoga, lo fa Chiara Reali, riprendendo in mano un classico della fantascienza femminista – The Left Hand of Darkness, di U. K. Le Guin – e ritraducendone il titolo alla luce di una ricerca precisa (La mano sinistra del buio in luogo di La mano sinistra delle tenebre). Appare giusto e sensato che entrambe le traduzioni generino grandi discussioni, in contesti completamenti diversi, per una volta unendo critici e fan in un’unica, impossibile domanda: esiste la traduzione “giusta”? E ha senso aspettarsi che vi sia?

 

Nicoletta Vallorani
Università degli Studi di Milano