02 aprile 2021

Il ritratto filmico-letterario della “Città scorbutica”

Totò il buono, Cesare Zavattini, Milano, Bompiani, 1945 – Fondo Bompiani

Gli scandagli negli Archivi di Apice sono preziosi per cominciare a ribaltare un diffuso luogo comune: che Milano poco o nulla abbia a che fare con il cinema. Le carte e il ricco apparato iconografico conservato in via Noto non solo contraddicono l’etichetta di “metropoli assente” nel campo della decima musa (R. Escobar), ma aiutano a illustrare il ruolo di crocevia di modernità assunto dalla “città che mescola il mondo” (F. Loi),  nell’intersezione fra filiere editoriali, centri di produzione, pratiche di attività letteraria e di scrittura filmica. Grazie ai materiali del fondo “La Notte”, cui è dedicato il seminario Milano sul set, è altresì possibile chiarire il volto fascinosamente contraddittorio che caratterizza la città “cuore del miracolo” – per dirla, questa volta, con i versi di Giovanni Giudici (fondo Giovanni Giudici). L’avvio è offerto da Miracolo a Milano, che giusto quest’anno celebra i suoi 70 anni: in questo capolavoro del neorealismo a sfondo ambrosiano, a brillare è l’estro immaginoso del funambolico Zavattini, autentico milanese doc, come i tanti intellettuali che prescelgono il capoluogo lombardo per vivere e lavorare. Arrivato negli anni trenta dalla vicina Luzzara, Za comincia la lunga e indefessa carriera di sceneggiatore, mentre inaugura la collaborazione con Bompiani pubblicando i suoi libri d’intonazione umoristica,  da Parliamo tanto di me e I poveri sono matti fino a Totò il buono, canovaccio del futuro film diretto da De Sica. Nel fondo Valentino Bompiani, in cui sono conservati i preziosi documenti privati dell’editore “artigiano”, una lettera al conte Valentino accompagna un ritaglio di giornale, con la foto che lo ritrae insieme con lo stesso regista e Sofia Loren, sul set della Ciociara di Moravia.

Nel reticolo fitto di relazioni culturali e mediazioni transmediali, di cui danno testimonianza gli Archivi di Apice, ecco stagliarsi il profilo di un altro poliedrico scrittore, milanese d’adozione, Mario Soldati, arrivato sotto la Madonnina alla fine degli anni Cinquanta. Le carte del regista di pellicole la cui sceneggiatura è a forte dominanza letteraria – da Piccolo mondo antico a Eugenia Grandet, da Jolanda la figlia del corsaro nero a La provinciale – mentre esibiscono la ricchezza delle occasioni lavorative offerte dalla “città intellettuale più viva del nostro paese” – oltre l’editoria libraria, la collaborazione con il “Giorno”, i progetti per il Piccolo Teatro, le trasmissioni televisive del centro Rai di corso Sempione – elogiano il carattere accogliente della civiltà ambrosiana:  “è affettuosa, umana. Lo è nel suo disegno urbano, con le strade a raggiera che si dipartono dal centro e altre concentriche che la sezionano in spicchi e anelli”.

 

Jolanda la figlia del corsaro nero, Emilio Salgari, Donath, Genova, 1905

Il caledoscopio di immagini metropolitane si arricchisce, con bagliori d’ambiguità suggestiva, grazie al patrimonio iconografico del Fondo della “Notte”.  Se le prime fotografie sono dedicate proprio alle pionieristica inchiesta televisiva soldatiana, Viaggio nella valle del Po. Alla ricerca dei cibi genuini, la luce si fa abbagliante quando la ricerca concentra il focus sulla stagione del boom.

All’acme della parabola, nel 1960 esce La notte di Antonioni: in incipit, per la panoramica dall’alto, la macchina da presa è posta sul grattacielo Pirelli, a firma Giò Ponti, inaugurato pochi mesi prima: sull’orizzonte, poco distante, si staglia la “faraonica” stazione Centrale, che accoglie gli immigrati dalle regioni meridionali come “Rocco e i suoi fratelli”. Il film di Visconti, presentato a Venezia nello stesso anno, è tratto dai primi due Segreti di Milano di Testori, Il ponte della Ghisolfa e La Gilda del MacMahon, editi da Feltrinelli nel 1958 e1959: ancora una panoramica dall’alto – questa volta siamo tra le guglie del Duomo, là dove volavano le scope dei barboni di Miracolo a Milano – cui si contrappongono, in ossimoro melodrammatico, gli scenari dell’Idroscalo e dei quartieri periferici, dotati per la prima volta di una certa scarna bellezza. Con ottica crucciosamente straniante, anche Luciano Bianciardi descrive la città della Vita agra come un “labirinto di griglie scure, fra le quali scorrono lunghe, eguali, monotone le strade”, percorse, con nevrastenica alacrità,  da squallidi impiegati e tristi segretarie. Dal romanzo pubblicato nel 1962, Lizzani trae un film nel 1964; gli fa da cornice uno splendido brumoso documentario della Rai Dove la vita è agra (1962), la cui colonna sonora è cadenzata sulla musica jazz di Giorgio Gaslini e Charlie Parker.

 

Giovanna Rosa
Università degli Studi di Milano