La memoria editoriale del Novecento in un acronimo: APICE e i suoi vent’anni
Vent’anni fa, proprio a ottobre, nasceva Apice. Nell’intenzione del rettore Enrico Decleva, ideatore di Apice e grande studioso di storia della cultura e dell’editoria, c’era un progetto ambizioso: l’impegno di fare spazio a un’idea ampia di archivio culturale, che raccogliesse tutte le fonti che possono testimoniare la storia dei testi che si trasformano in libri, il percorso di editori, autori, redattori, traduttori e di quegli artisti che hanno dedicato parte della loro attività all’editoria. Le lettere che compongono l’acronimo APICE (Archivi della Parola dell’Immagine e della Comunicazione Editoriale) sono lì a testimoniare l’ampiezza di orizzonti.
Da un nucleo iniziale, il patrimonio di Apice in questi vent’anni si è progressivamente aumentato grazie a diverse acquisizioni e donazioni, arrivando a comprendere oggi oltre sessanta fondi archivistici di scrittori, editori e imprese collegate all’editoria, decine di collezioni di opere d’arte e di grafica, fondi fotografici, raccolte di riviste e giornali, fondi librari di collezionisti, tra cui alcuni di particolare rilevanza, come il fondo Reggi dedicato alle prime edizioni delle opere letterarie del Novecento. Un vero e proprio “mondo di carta”, per dirlo con le parole di Pirandello. Una testimonianza tanto più importante oggi, nel momento in cui stiamo assistendo a una rivoluzione graduale ma continua nella trasmissione della cultura scritta. In questa transizione, senza una forte consapevolezza della fragilità di questo tipo di documentazione, rischiamo di perdere il raccordo con quella civiltà del libro che da Gutenberg in poi, pur trasformandosi nel corso del tempo, ha caratterizzato stabilmente le nostre pratiche di apprendimento e di lettura. Al contrario, i cambiamenti di oggi riguardano non solo aspetti tecnologici, ma anche sociali, economici, giuridici e più ampiamente culturali. Enormi possibilità si aprono ai nostri occhi di lettori: i libri di carta convivono con quelli elettronici; le piattaforme on line ci consentono di leggere, inserire le nostre critiche ai libri degli altri ed essere al tempo stesso lettori, autori e critici; i libri digitalizzati da Google o da altri enti ci promettono enormi biblioteche senza pareti, accessibili 24 ore su 24. Ci si potrebbe sentire all’interno della biblioteca di Babele e avvertire un brivido di onnipotenza. Come scrive Borges, “quando si proclamò che la Biblioteca comprendeva tutti i libri, la prima impressione fu di straordinaria felicità”. Del resto il sogno di una biblioteca che riunisca tutti i testi finora scritti ha percorso la storia della cultura occidentale. Basti pensare ai tentativi di bibliografie più o meno universali. È il sogno o forse l’illusione di conservare per sempre il patrimonio culturale del mondo intero. Ma la tecnologia cui è affidato tutto questo patrimonio è anch’essa fragile, né ci dà certezze su quanto a lungo la documentazione digitalizzata potrà essere conservata senza correre rischi di non essere più leggibile. C’è poi un particolare che per uno studioso non è trascurabile: i libri dell’era gutenberghiana o usciti prima della rivoluzione digitale, disponibili ora su un supporto elettronico, diventano fruibili separatamente dalle forme, manoscritte o a stampa, che hanno contribuito a costruire i loro significati storici. Il ruolo dei centri in cui si custodiscono gli archivi di editori e autori diventa dunque di fondamentale importanza per documentare la storicità dei testi, per preservare la memoria di come sono diventati libri. Conservare i carteggi tra autori ed editori, le prove di stampa, i progetti non realizzati, i giri di bozze con le correzioni di mano dell’autore, consente di guardare al processo editoriale con una profondità che la semplice analisi delle edizioni non permette.
Il Centro Apice sin dal suo atto di costituzione, nell’ottobre di vent’anni fa, è nato con lo scopo di conservare e valorizzare “fondi bibliografici, iconografici, archivistici …che, per rarità, importanza, ricchezza delle collezioni, siano funzionali allo svolgimento di ricerche particolarmente qualificate”. In altre parole, è nato per creare una testimonianza indelebile della straordinaria stagione dell’editoria novecentesca. Un’editoria viva, esuberante per la ricchezza e la diversificazione delle proposte, e in modo particolare a Milano, città che dall’800 in poi non ha mai smesso di essere la capitale editoriale del nostro Paese.
È stato scritto che “le storie delle carte del Novecento sono nomadi, seguono le peregrinazioni degli scrittori e spesso deflagrano in fondi di cui è arduo ricostruire l’unità”. Ma è anche vero che quelle carte, proprio per la densità dei rapporti che gli autori intrattengono con gli editori, hanno molta probabilità di finire negli archivi editoriali. È quello che si riscontra quando si esplorano i tanti archivi di editori e autori che conserviamo. Da essi affiorano nomi che le storie della letteratura non restituiscono. Spesso sono donne: redattrici, traduttrici, collaboratrici di collane per bambini, maestre prestate all’editoria. Quasi nessuno si ricorda di loro, eppure sono state spesso queste figure nell’ombra a decretare il successo di libri e di intere collane.
Negli ultimi decenni si è fatta strada l’idea che il Novecento non è un secolo come gli altri, non solo dal punto di vista della storia sociale e politica, ma anche di quella culturale. Un grande bibliotecario italiano, Luigi Crocetti, scriveva sul finire degli anni ’90 del secolo scorso: “Quella del ’900 sarà con ogni probabilità l’ultima cultura a poter essere documentata nei modi, tutto sommato classici: carte, libri e oggetti fisici in generale”. E che sia l’ultimo secolo di carta è l’idea che accomuna molti dei nostri eredi che hanno affidato ad Apice l’archivio dei loro cari. È quanto traspare da una lettera dell’11 marzo 2005 di Alina Scheiwiller a Gina Lagorio. Così spiegava le ragioni per cui aveva deciso di destinare ad Apice l’archivio della casa editrice di suo marito Vanni e delle edizioni All’Insegna del Pesce d’oro:
“L’archivio (…) probabilmente sarà uno degli ultimi archivi editoriali, perché oggi il ‘mestiere dell’editore’ si deve misurare con la labilità dell’elettronica, con la rapida scomparsa di ciò che una carta carbone salvava.
Le carte di Vanni rimangono invece a raccontare la sua storia: quella di un’editoria in-utile (era un’espressione di Prezzolini che egli amava riprendere) non tesa cioè o non solo all’utile del guadagno, ma assolutamente certa dell’utilità, dell’intelligenza e dell’impegno personale di chi le ha dedicato una vita”.
Attraversate dal furore di leggere e pubblicare, quelle vite nascoste tra le carte possono raccontare una storia della cultura del Novecento nuova, ricca di punti di vista diversi, in cui al centro non c’è solo l’autore, ma i tanti volti che si incontrano nel mondo editoriale, testimoni silenziosi di un passato che ha ancora tanto da insegnarci.
Lodovica Braida
presidente Centro Apice
L’Immagine della locandina è gentilmente concessa dall’Archivio Emilio Isgrò, ispirata a un documento dell’archivio Scheiwiller del Centro Apice