10 maggio 2021

La poesia nelle agende di Giovanni Giudici

Giovanni Giudici – foto Archivio Giudici

Una pagina inedita delle agende di Giovanni Giudici, datata 22 marzo 1965, e conservata nell’Archivio dell’autore presso il Centro Apice dell’Università degli Studi di Milano, si apre con un’immagine della città, in cui l’io annota una sensazione recente: «La bella passeggiata per questa strada – il quartiere di Milano che adoro, mi piacerebbe vivere in quella piazza, morirci anche – nell’aria morbidamente primaverile». Come talvolta avviene, poesia e scrittura privata si compenetrano, entro un registro stilistico che mantiene la modalità dell’espressione autobiografica ed esperienziale, e al contempo assume il ritmo della versificazione. Ma le pagine delle agende di Giudici hanno uno scopo primario: la registrazione di un percorso intellettuale, discontinuo, variabile, che alla scrittura affida un ruolo testimoniale, e rivela, nella rappresentazione di un soggetto empirico, il complesso rapporto dell’intellettuale con la società, lungo i decenni del secondo Novecento.

Si potrebbe definire un’autobiografia culturale che, come tale, mostra tutti i dubbi, i conflitti, gli interrogativi che costellano l’esistenza singola di un individuo, nel rapporto con i meccanismi complessi della modernità, familiari, economici, sociali; ma anche un percorso che attraversa l’officina della poesia, e apre lo spazio alla riflessione sull’esercizio dei versi, all’elaborazione di una lingua poetica che implichi innanzitutto un rapporto stringente con la realtà. Ecco che la stessa scrittura delle agende diventa la sede di una poesia che, nell’atto di comporsi, ragiona su se stessa e sul proprio ruolo, così che le annotazioni vengono a costruire un campo eterogeneo di prove e di considerazioni preziose.

La pagina immediatamente successiva a quella sopra citata, datata 25 marzo 1965, registra gli appunti per «i versi sull’amore», e l’incipit ne annota il processo ragionativo: «Mentre rientro a casa in tram penso a un altro modo di narrazione». Il racconto che poi ne deriva mette in scena, nei disegni della scrittura privata, l’ipotesi poetica che darà forma alla Bovary di Autobiologia, una delle figure femminili più belle della poesia di Giudici, nel tormento della sua allucinazione sentimentale, a partire da un’idea che corrisponde a un progetto di personaggio: «Tutte le cose accadevano unicamente nel suo pensiero». È la dialettica che pone l’io al centro, o ai margini, di un rapporto complesso con la determinazione storica, con la contingenza dello spazio e del tempo in cui vive. Il problema di rappresentare il soggetto, nelle sue forme più diverse, si volge in direzione di una ricerca continua, e investe chiaramente, nelle carte d’autore, il lavoro sulla lingua. La modalità interrogativa attraversa le pagine delle agende, rende ragione dell’atteggiamento di un io che ripropone a più riprese il senso e la funzione della poesia, proiettandone il valore civile e collettivo attraverso i dubbi e le resistenze che le sue stesse parole veicolano.

 

Laura Neri
Università degli Studi di Milano